COABITARE? DIPENDE CON... CHI.
FABIO FOCARDI
11 feb 2015
COABITARE? DIPENDE CON... CHI.

UNA RISPOSTA A QUESTO INTERVENTO

https://www.ifmagazine.florencepress.it/articolo.php?n=letture-&visioni&tipo=articoli&qc=38&i=5

Nel mondo, l’abitare è uno dei problemi più dirompenti, non solo per la crescita demografica ma anche per scelte dei grandi capitali che continuano a carpire i centri delle città, sempre più finalizzandoli a funzioni commerciali turistiche e finanziarie, e a sospingere ai bordi di queste stesse megalopoli masse di cittadini sovrapponendoli a quelli in cerca di inurbamento. Londra e la protesta dei suoi cittadini è testimone attuale di questo processo.

La guerra, estesa ormai in molte parti, distrugge città, spinge milioni di persone a cercare nuovi luoghi di esistenza o li spinge a migrazioni forzate e crea tendopoli fantasma nei deserti. Ne siamo direttamente coinvolti. Mentre viene sgomberata la torre David, in Italia si assiste alla marcia degli sfrattati e al proliferare di accampamenti di lavoratori immigrati, schiavizzati dai produttori agricoli e dalle mafie. E’ una geografia che spesso viene occultata, ma che determina una delle  dinamiche più gravi del nostro mondo.

La crisi e le guerre non sono un fenomeno naturale, ma strumento di scontro ed è dentro questo scontro che si determina la dinamica dell’abitare. In realtà sembra valga solo in parte la tua affermazione “in momenti di povertà ci si avvicina e si collabora, nelle realtà floride ci si allontana e si tende a combattere per difendere i privilegi.” Credo che con la crisi sia il capitale che allontana le povertà e tenda a disperderle, mentre si avvicina ai centri da loro abitati per catturarli alle proprie funzioni. Al contempo, si premura di allontanare dai luoghi dello scontro strati privilegiati, proteggendoli o con difese militari o in luoghi inarrivabili, magari inseriti in una natura ricostruita, obbligandoli al cohousing. Le olimpiadi brasiliane ne sono state una testimonianza eccezionale.

I poveri si uniscono e, come nel caso della torre David, riescono a costruire un percorso di convivenza. In condizioni del tutto precarie, sperimentano metodi che possono somigliare al cohousing proposto dal capitale, ma che forse sono uno stadio iniziale e obbligato rispetto alla produzione di nuovo abitare. Non a caso l’occupazione venezuelana, come molte delle nostre, non sono tollerate e finiscono grazie all’intervento della forza pubblica. Non è lecito sapere cosa si venga producendo in questi percorsi di scontro, quale immagine dell’abitare si vada costituendo nel conflitto, ma credo - da parte delle moltitudini - si stia sperimentando un modo di stare insieme non transitorio e non solamente legato al bisogno: piuttosto leggo in queste lotte la ricerca di nuova relazione tra persone, una spinta anche a livello interpersonale. Ritengo che in gioco ci sia proprio il superamento dell’individualismo, dell’identità, su cui punta la cultura attuale del costruire che usa la solitudine delle quattro mura come fabbrica del contenimento.

La proposta anti individualista di Fourier non mi è mai parsa utopistica, senza luogo, quanto un tentativo di immaginare una via di uscita al nascere delle grandi città del lavoro, che si sono sviluppate senza soluzione di continuità fino alla fine del ‘900. Fourier ha immaginato una vita oltre l’individualismo: il vivere in comune come alternativa all’esasperazione dell’identità del singolo o della famiglia. Anche perché non credo che l’individuo sia una monade che a posteriori si relaziona agli altri. Fin dalla nascita biologica l’individuo è partecipato dagli altri con un modo di pensare, con affezioni positive e negative. Superare l’individualismo e il sistema che vi si è costruito sopra, vuol dire superare la solitudine, anche quella generata dalla famiglia.

Ritengo invece utopistico pensare al ritorno alla famiglia e società patriarcali: un utopismo negativo che non nasce dalla realtà dell’oggi e che ci lascia lontani dal centro di uno scontro epocale in cui dovremo, invece, stare dentro. Insomma, il concetto di coabitazione non mi sembra neutro o assoluto. La coabitazione proposta oggi dal capitale è sicuramente la corruzione di una necessità di relazione tra le persone e riproduce separazione solitudine e bisogni. La coabitazione messa in atto dalle povertà può portare invece a un novo modo di vita. In questa contraddizione, dovrebbe inserirsi l’immaginazione dell’architettura, non certo con la riproposta dei falansteri, piuttosto con nuove dimensioni di strutture che costituiscano condizione della relazione  tra le persone.

Ho sempre pensato al coabitare come a un progetto di vita interessante, a un momento di una vita relazionale e di vicinanza. Di crescita. Certo, su questo terreno si combatte uno scontro antropologico e il capitale non smetterà di distruggere o far propri i modelli e le alternative proposte sul piano della convivenza, per farne terreno di nuovo business.

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