DIALOGO SUI MASSIMI SISTEMI...
GIANNI BONINI e LEONARDO TOZZI
10 set 2014
DIALOGO SUI MASSIMI SISTEMI...

“Secondo Standard and Poor’s nel 2060 il 60% dei Paesi andrà in bancarotta…”

“Ma questo lungo termine è una guida fallace per gli affari correnti: nel lungo termine siamo tutti morti” (J.M. Keynes "A Tract on Monetary Reform", 1923).

 

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LEONARDO TOZZI - Eccoci al VI numero di IF, più due libri pubblicati in parallelo, la ristampa del glorioso Tecnica della Sconfitta del (misconosciuto!) grande inviato di guerra Franco Bandini, e il saggio di Franco Cardini, insigne storico delle Crociate, sul Mediterraneo, Il Grande Blu. Chi ce l’ha fatto fare e dove vogliamo andare?

GIANNI BONINI - Ce lo fa fare la passione. Non le infatuazioni che si consumano nell'arco di una fiction televisiva come nel Truman Show di Peter Weir. Ce lo fa fare la smania di non accontentarsi mai delle risposte facili, il fastidio per il politicamente corretto - immensi Beppe Barra e James Senese, "chillo è fatto, è niro è niro", sui guasti di un'accoglienza a senso unico - ed anche una formazione politica che ci ha dato una visione globale dei problemi, un tempo si sarebbe detto una visione internazionale della lotta di classe.

I due libri che Florence Press ha editato testimoniano che le questioni strutturali che affliggono l'Italia e l'Europa non si risolvono se non si aggrediscono i contesti storici, Mediterraneo in primis. Sono due lezioni magistrali di due grandi storici. Tecnica della Sconfitta è un manuale sull'eterno provincialismo del nostro establishment, non solo di Mussolini e di Ciano. La ragione principale sta nel fatto che l'unità d'Italia è stata un effetto non sufficientemente metabolizzato del dominio britannico. C'è un'ignoranza abissale nelle classi dirigenti e i giornali e la politica, con la “P” minuscola, la riflettono. Non partecipo al cordoglio per la caduta libera di una stampa sciatta e autoreferenziale. In questi ultimi vent'anni si è consumato uno scempio antropologico di cui i furbetti annidati negli snodi del potere mediatico-finanziario sono stati i virus, circoli chiusi con scarso senso dell'interesse nazionale. L'intervista sul debito italiano di qualche settimana fa della Signora Reichlin a Repubblica così sprezzante col popolo dei BOT, considerati un rischio come gli altri investimenti, da scandalizzare Milano Finanza, è esemplificativa di questa parabola. La realtà ha superato ampiamente le previsioni di Pasolini e di Augusto Del Noce? Troppo pessimismo? Può darsi. La vera emergenza italiana è la ricostruzione della classe dirigente. Intanto evitare il commissariamento europeo e la troika, sarebbe già un buon viatico.

Mi piace Alberto Sordi nel finale di Una Vita Difficile, quando con un pugno catapulta in piscina il padrone, l'indimenticabile Claudio Gora, dopo che questi gli ha spruzzato del seltz in faccia per umiliarlo davanti ad un'attonita Lea Massari, altra superba attrice del cinema italiano che stregò Hollywood. La Rohrwacher non vado a vederla.

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L.T. - Comincerei questa conversazione dalla situazione internazionale. Si usava così una volta e non era affatto sbagliato.

All’indomani della caduta del muro di Berlino e della fine conclamata del comunismo, ebbe molta fortuna un libro del politologo americano Francis Fukuyama, La Fine della Storia. In sostanza F. sosteneva che il sistema liberale-occidentale si sarebbe affermato seppur gradualmente il tutto il mondo e che almeno in questo senso la Storia, quella Storia era finita.

In realtà le cose sono andate poi assai diversamente. Dopo Reagan l’America non pare averne azzeccata più una. Dopo Clinton, che cavalcò la globalizzazione e la finanziariazione del mondo, l’11 settembre ha rilanciato l’interventismo post wilsoniano dei neocons con la teoria dell’”esportazione della democrazia” lasciando poi spazio all’apparente neo isolazionismo Jeffersoniano di Obama, dove hanno probabilmente pesato i costi immensi delle politiche precedenti, i crescenti vincoli del bilancio e forse una diversa interpretazione, più ristretta per così dire, dell’orizzonte nazionale.

In questo quadro hanno perso peso le alleanze basate su comuni visioni di civiltà e acquistato rilievo utilità contingenti (finanziaria/commerciale con la Cina per esempio): uno degli effetti più disastrosi per noi di queste scelte è stato la svalutazione degli alleati storici (Arabia Saudita, Israele, Europa), con il disastro provocato dalle cosiddette “primavere arabe”. Ora incombe un altro macigno enorme, l’estensione dell’impiego della costrizione finanziaria come leva per disciplinare comportamenti di alleati e nemici (vedi il caso Russia), le cui conseguenze sulle già traballanti economie europee si annunciano pesantucce…

G.B. - Sulla caduta del Muro di Berlino, nonostante Andreotti ci avesse messo in guardia che non sarebbero state rose e fiori, non ci abbiamo capito niente. Nell'autobiografia dolciastra di Claudio Martelli, Ricordati di Vivere, ad un certo punto si narra dello sgomento di Craxi di fronte all'accelerazione della Perestroika che si disfa con troppa frettolosità di una storia lunga settant'anni. Putin e il KGB devono aver pensato la stessa cosa, mentre Eltsin e gli oligarchi banchettavano al tavolo del Gosplan, il vecchio comitato statale per la pianificazione economica. Sicuramente questa è stata la prima sconfitta della politica estera dell'UE, il mancato sostegno ad una transizione che garantisse reciproca stabilità. 

Ora senza scomodare l'Heartland e la grande scuola geopolitica, l'Ucraina di oggi è figlia del vuoto dell'iniziativa europea che è stato improvvisamente riempito da questo nuovo irredentismo europeista. Non mi convince la definizione, avanzata da un intelligente analista come Germano Dottori, della Merkel guglielmina di contro ad un Kohl bismarckiano, cioè a dire che la Merkel risponde ad una concezione imperiale che tracima i confini della Mitteleuropa come il Kaiser che agitò i sogni inglesi in Africa ed in Medioriente. Non c'è niente di vanesio nella Merkel che non piacerebbe a Churchill. Il problema è che una saldatura euroasiatica in termini di mercati e di potenza militare a quali interessi risponde? Ai nostri?

Un'Europa a trazione baltica, lontana dal suo Sud, non è quello che cerchiamo e non è l'idea di Europa concepita dai Padri fondatori, Jean Monnet compreso. Che il processo di costruzione europeo e l'unificazione tedesca avrebbero comportato dei cambiamenti pesanti negli equilibri globali era scontato così come il fatto che doveva essere gestito con saggezza. E c'erano ancora Kohl, Mitterand, Craxi e Andreotti, Mario Soares e Felipe González ... figuriamoci! Lo conferma del resto l'ingenua pubblicità che vedo ogni tanto in tv sull'Europa descritta come la più grande potenza industriale mondiale. E gli altri, Regno Unito in testa che si è tenuto la sua sterlina, avrebbero dovuto stare a guardare?

Il giudizio dei tifosi dei neocon su un Obama rinunciatario non lo condivido. Premesso che gli americani come Roma antica esprimono una profonda consapevolezza del ruolo e delle responsabilità imperiali ed infatti negli USA la storia romana è studiata con incredibile amore, lo smart o soft power obamiano, descritto molto bene dagli annuali rapporti Nomos&Kaos di Nomisma, il think tank di ispirazione prodiana, è la declinazione di una politica che privilegia strumenti diversi dall'intervento armato diretto e dai relativi costi, a partire ad esempio dall'Information Technology e dai "networks of reformers to learn from and support one another and to catalyze progressive change in the region" - da MEB (Middle East Briefing) US Dep. Document confirms Regime Change Agenda in Middle East.

Il Medioriente in fiamme è il punto di attrito tra le masse continentali geopolitiche Europa-Asia-Africa: la corsa contro il tempo dei sauditi minacciati nel loro primato dall'innovazione tecnologica oil&gas, non solo shale, il rinato orgoglio persiano, la volontà della Russia di non farsi tagliare fuori dal perimetro mediterraneo così chiaramente descritta nella precedente intervista a IF della Narocniczkaja, il nuovo sultanato di Erdogan, il limes degli approvvigionamenti energetici europei.

La splendida analisi di Raghida Dergham che pubblichiamo nelle pagine seguenti dà la misura della complessità della situazione mediorientale in cui i confini disegnati dall'accordo Sikes-Picot, vecchio di cent'anni, sono irrimediabilmente saltati.

Leggere il quadro globale in anticipo ci consentirà di muoverci in linea con le nostre possibilità. Siamo una portaerei della NATO nel Mediterraneo, da qui dobbiamo partire, senza fughe in avanti tanto più che il Mare Nostrum non ci permette la navigazione degli anni ottanta, al tempo di Sigonella, quando il Nord Africa era presidiato da regimi laici socialisti della cui stabilità eravamo garanti e la questione palestinese sembrava avviata a soluzione. Il Mediterraneo non sarà più il mare magnum di Dante, ma un nuovo crocevia mondiale d’interessi dove l'Italia, in quanto potenza regionale, gioca su un palcoscenico mai così fitto di attori extraeuropei, cinesi, giapponesi, indiani, addirittura brasiliani, che investono nelle terre rare e praticano il landgrabbing. In Africa centrale vi sono già i cartelli bilingue in cinese. I fattori di cui tenere conto sono tanti e molti non li conosciamo, smettiamola di dare giudizi adolescenziali, ci sono un sacco di blog che possono aiutare a farci un'idea meno provinciale del mondo.

Non aderisco alla tesi di Samuel Huntington sullo scontro di civiltà, ma la difesa delle radici cristiane in Medioriente è prioritaria, non va consegnata al cesaropapismo di Putin e l'abbandono della Libia alla tribalizzazione viene pagato da tutta l'UE, non solo da noi che siamo in prima fila. Le cosiddette primavere arabe hanno generato molteplici spinte, non di rado sotto la veste del fondamentalismo religioso, con un ricambio almeno in parte di ceto politico su cui lavorare. Il cinismo, se lo vogliamo chiamare così, meglio forse realismo, della Politica internazionale è un assioma con cui fare i conti sempre, così come i cambi di alleanze, il segretario generale della NATO è un norvegese … L'alleanza Alitalia-Etihad è un'operazione significativa anche sotto il profilo geopolitico.

 

 

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L.T. - All’affermarsi della globalizzazione, dell’integrazione mondiale dei mercati, dei sistemi produttivi e delle attività finanziarie ha corrisposto un forte indebolimento della capacità decisionale e della visione strategica della Politica. C’è poi la sensazione che le promesse della tecnologia stiano gonfiando oltre misura gli asset delle imprese (verso una bolla tecnologica?). Pesa poi moltissimo il Debito, e i vincoli che ne derivano. D’altra parte il crescente carico demografico del welfare espande ormai la spesa pubblica oltre i limiti di un’imposizione fiscale accettabile.

Insomma proprio quando ci sarebbe più bisogno di Politica, essa viene a mancare …

G.B. Mah ... la Politica. La questione è quella del Comando nella società della globalizzazione finanziaria, quando un algoritmo delle transazioni di borsa o un rating di sostenibilità del debito pubblico può far saltare in un nanosecondo un'economia strutturata. L'autonomia e l'indipendenza non sono mai esistite nell'accezione moralistica corrente e non possiamo più concepire la democrazia con i parametri del XX secolo che è poi stato il più sanguinoso della storia dell'umanità. Il ritorno alle vecchie sovranità nazionali sarebbe non solo un grave errore - ha ragione il Presidente della Repubblica - è anche impossibile per fortuna. Siamo di fronte ad un passaggio che va al di là in questo momento delle teorie politiche consolidate, non parlo dei politologi che tiran quattro paghe per il lesso.

La grande storia romana ci offre qualche utile riferimento. Penso alla transizione tra la Res Publica ed il Principato, alla ricerca da parte di Cesare e di Augusto di un equilibrio fra Senato e Princeps, alla cittadinanza che il sottovalutato Claudio propugna per i Galli, al tentativo di Tiberio, respinto dal senato, teso ad ottenere il riconoscimento di Cristo come un dio del pantheon romano, elementi di una concezione allargata del diritto di cittadinanza che si legano all'affermazione di una egemonia civile che è qualcosa di più elevato del dovere di pagare le tasse. È l'appello a Cesare davanti al Procuratore di Giudea che salva Paolo, il suo essere civis romanus

Ed allora qual'è la dimensione politica e giuridica dell'essere oggi civis europeo?  Lasciamo stare le prefiche sulla più bella costituzione del mondo, quali sono i canali di una volontà popolare che rifiuta la dimensione unica dei sondaggi e della rete, i mass media capaci di promozione antropologica e non solo strumenti della dittatura del pensiero unico? Dopo Maastricht ha prevalso una dimensione bancocentrica e dirigista. Quello che non troviamo nella costruzione politica europea è proprio una dimensione attualizzata della Politica, solo direttive, diktat, regolamentazioni. Nessuna tensione, nessuna visione. Così non va. Mi irritano i risolini sulla Mogherini alla politica estera dell'UE che finora non c'è mai stata, al posto della baronessa Ashton. Spesso sono gli stessi che hanno eletto la Spinelli a Strasburgo.

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L.T. - Il leader ungherese Viktor Orban ha recentemente suscitato scandalo sostenendo una cosa che invece è sotto gli occhi di tutti, ovvero che la democrazia liberale è diventata – come direbbe The Economist – “unfit” per competere, svilupparsi e decidere nell’economia globale. Penso modestamente che questa verità, benchè amara, sia pienamente nota a chi conduce le danze in America e in Europa e che tanti processi politici che stanno avvenendo siano spiegabili proprio alla luce di ciò. Però… c’è un Però grosso come un macigno: per chi è fuori dai giochi che scelta resta?

G.B. C'e un problema di fondo. La democrazia ed il suo corredo di libertà civili ed economiche, con Hobbes o Locke, è un prodotto della storia occidentale e del cristianesimo, che ha inizio con Roma. Atene fa storia a sè. Il resto del mondo non ha conosciuto il valore della persona che il Diritto Romano e il Nuovo Testamento hanno seminato, per quanto possa affascinarmi il senso dell'onore giapponese e l'importanza data da Confucio alla formazione dell'individuo. Il cinema di Ozu mi emoziona e farei proiettare obbligatoriamente L'Arpa Birmana nelle scuole, ma il modo di produzione asiatico mi è sempre apparso negatore della libertà. Il mondo multipolare ha innescato una competizione tra culture e stili di vita diversi, apparentemente omologati dal consumo e l'Occidente non vede più certificato il suo sistema di valori, peraltro asimmetrico. Considera poi che, come ha osservato Geminello Alvi, capitalismo e libertà non vanno necessariamente a braccetto e nel caso cinese l'espansione della ricchezza sembra prosperare tranquillamente insieme alla disuguaglianza sociale ed alla democrazia monopartitica, per usare un eufemismo che il mio maestro universitario Giuliano Procacci applicò al sistema sovietico poststaliniano. Per cui lo strapotere tecnologico e la concorrenza di concezioni religiose panteiste e non irriducibili nella difesa dell'unicità della persona potrebbero dimostrarsi più funzionali al tempo delle multitudini e non più dei popoli. Non che la Rivoluzione industriale inglese sia stata un pranzo di gala. Il più bel libro che ho letto sull'argomento, Rivoluzione Industriale e Classe Operaia in Inghilterra di E.P. Thompson, racconta il doloroso parto che costò la cancellazione di intere comunità, civiltà e costumi popolari. Quindi il mondo non è peggiorato dal punto di vista degli umili, non commettiamo questo errore, semmai oggi si sta molto meglio e non solo sotto il profilo della previsione di vita. La libertà è una merce privilegiata e le conquiste sociali sono sempre costate salate.

 

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L.T. - Vorrei inserire qui un’apparente divagazione che ha tuttavia a che fare con quanto abbiano detto finora. Mi chiedo da tempo se sia giusto sostenere che Craxi fu un anticipatore di Blair, come spesso viene detto.

In realtà io penso che nella svolta impressa al riformismo socialista da Bettino Craxi alla fine degli anni 70, poi sviluppata in una cavalcata politica straordinaria per tutto il decennio successivo, c’era una spinta radicalmente alternativa alle élite e all’establishment, un contrasto moderno ma alternativo alle tendenze che maturavano nel ventre della società capitalistica occidentale, che non si trova affatto in Blair. Cioè Craxi non era un modernizzatore del sistema funzionale agli interessi “progressisti” del capitale, era altresì un interprete dell’interesse nazionale piuttosto deciso, erede originale delle vicende più intense e importanti della storia patria, e non un audace esecutore delle correnti emergenti della globalizzazione. Blair al contrario si muove nell’orbita clintoniana, ovvero di quel ceto politico di sinistra che ha vistosamente sposato la globalizzazione finanziaria, garantendole tutte le coperture politiche e ideologiche necessarie.

G.B. Penso tu abbia proprio ragione. Blair, anche per la sua formazione nel College di Eton, è totalmente dentro la ruling class britannica ed inoltre si afferma sulla scia della deregulation radicale della Thatcher, magistralmente raffigurata nei film di Ken Loach. Craxi è un genio politico figlio dell'umanesimo socialista, dotato di una straordinaria sensibilità mediterranea. Per questo diventa subito il referente e non a chiacchiere, dei socialisti latinoamericani, di quelli spagnoli e portoghesi, dei dissidenti dei regimi sovietici. Notoriamente lega meno con l'SPD che coltiva una sua Ostpolitik, tuttora un tratto caratteristico della Germania. Il leader socialista si spende in prima persona nel sostenere l'Internazionale Socialista e lo fa con una generosità che è troppo tardi per rimpiangere. 

Lo stesso Concordato di cui ricorre quest'anno il trentesimo anniversario, coltivava l'idea di coniugare cattolicesimo ed umanesimo socialista per dare forza ad un progetto di modernizzazione che non deprimesse la partecipazione popolare, anzi ne valorizzasse la vitalità persino sotto il profilo economico. L'elaborazione sui meriti e bisogni della Conferenza di Rimini in pieno edonismo reganiano, per usare l'immagine liberatoria di Quelli della notte, la trasmissione tv cult di Renzo Arbore, rimane a tutt'oggi l'unico serio tentativo di adeguare il Codice di Camaldoli all'epoca postmoderna. Rilanciarlo sarebbe una bella operazione per aiutare la maturazione di un nuovo ceto politico affrancato dalla sottomissione ai dogmi della finanziarizzazione dell'economia. Peccato che allora l'opinione pubblica cattolica non ne abbia colto il carattere dirompente, fatta eccezione per Comunione e Liberazione. L'esaltazione dell'homo faber sarebbe piaciuta molto a Ezra Pound, che contro l'usura ha dedicato il memorabile XLV dei Cantos Pisani. I salotti buoni hanno dimostrato di non capire questo sforzo di sintesi politica e coesione nazionale. Hanno preferito per forza o per convenienza fregarsene di Garibaldi che pure non amo e del riscatto nazionale ingaggiato da Bettino. Il PDS prigioniero è servito all'uopo. E come nel Cinquecento i cannoni francesi e i lanzichenecchi di Carlo V misero fine all'autonomia politica italiana ed ai precari equilibri della pace di Lodi, così alla fine del Novecento è giunta al capolinea la magnifica avventura del socialismo riformista. Ci ha regalato giorni e amicizie indimenticabili, un'esperienza umana che l'amarezza della sconfitta non può cancellare. 

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L.T. – Molti sostengono che se non cambia il tetto europeo del 3% del rapporto deficit/Pil non ce la faremo mai ad uscire dalla situazione di crisi in cui siamo. Ma altrettanti sanno che se non si interverrà radicalmente sull’impianto della spesa pubblica, sulla burocratizzazione del paese e sulle regole del mercato del lavoro, qualunque allentamento dei rigori rischia di peggiorare la situazione ulteriormente.

Bisogna ricordarsi che il debito si accresce soprattutto perché le entrate dello Stato continuano ad essere inferiori alle spese, facendo emergere un fabbisogno da finanziare. La crisi ha ridotto e riduce profitti e redditi provocando una flessione crescente del gettito fiscale. Anche per questo si parla sempre più spesso di patrimoniale e la tassazione viene spostata sui patrimoni mobiliari (le rendite finanziare, che poi nel 90% dei casi sono i risparmi della classe media) e immobiliari (la casa).

Pochi mesi fa abbiamo dato spazio, anche noi di IF, alla minuziosa analisi del prof Gaurino che introduceva proposte concrete e molto ben argomentate. Vuoi ricordarcela?

G.B. Sono cose che tu hai spiegato molto bene su IF. Abbiamo fatto nostro il saggio di Giuseppe Guarino per denunciare l'austerità senza crescita imposta dall'eurocrazia di Bruxelles. Soglia di deficit al 3% del Pil, debito pubblico al 60%, Fiscal compact in tema di riduzione del debito pubblico del 3,5% l'anno, misure imposte dal Leviatano europeista a dispregio della vita democratica, non solo in Italia e dei Trattati UE. E che la partita in gioco sia la cessione di ulteriori quote di Politica nazionale l'ha fatto intendere chiaramente Mario Draghi. Si ritorna ai ragionamenti di prima: non sono un patito della democrazia formale, ma così esiste il rischio di delegittimare il consenso democratico, il simbolo della sovranità popolare e questo potrebbe rivelarsi un boomerang per la stabilità politica e sociale del Paese.

Ora io ritengo che la situazione economica italiana sia grave, le privatizzazioni fatte in passato in molti casi non hanno ridotto il debito, ma il nostro peso economico e la nostra competitività. Geronzi ha parlato di un'operazione sciagurata riguardo alla vendita di Telecom, oggi partner indebolito nello wargame delle tlc e di internet tra Vivendi, Telefonica, Sky e Mediaset.

Dovremo abituarci a un welfare meno rassicurante, prima ce ne rendiamo conto e meglio è. Le Riforme non possono più attendere, scuola e giustizia in testa, ma i mandarini non desistono. Quelli che lasciano marcire le leggi per anni perché non vengono adottati i decreti attuativi, vanno rottamati senza pietà.

L'Italia è la depositaria di un'incomparabile civiltà, di uno stile di vita appetito da tutti che è il vero brand da giocare sui mercati. Non sono un seguace di Brunello Cucinelli, ma la sua equiparazione dignità del lavoro-qualità del prodotto-felicità l'ho trovata tutt'altro che peregrina. C'è quel bellissimo passo dell'Argent di Péguy che si riferisce all'onore del lavoro prima della standardizzazione contemporanea che non mi stanco mai di citare : "Dicevano ridendo e per prendere in giro i curati che lavorare è pregare e non sapevano di parlare così bene. A tal punto il lavoro era una preghiera. E la fabbrica un oratorio".

Non sono un sostenitore della decrescita, tutt'altro, più semplicemente credo possibile, senza retorica, ritagliarci uno spazio di qualità delle merci che non è solo fashion, imperniato sulla tradizione artigianale, sul fare bene le cose, che sono i fondamentali della nostra fortuna nelle aziende di punta, ENI, Enel, Finmeccanica, grandi opere, infrastrutture di comunicazione, dove godiamo di una formidabile reputazione che va alimentata ininterrottamente. 

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L.T. - Non si può pensare di fare impresa in un paese dove le tasse sono arrivate al 60%. La fiscalità ha raggiunto una pesantezza insostenibile, ormai è un gravame che toglie ossigeno, voglia, speranza ai creatori di impresa, reddito, profitto. Bisogna arrivare – ha sostenuto per esempio un acuto economista che leggo sempre volentieri, Sapelli - ad un aliquota unica del 25% o gli Animal Spirits costruttori di ricchezza ce li scordiamo per sempre…

La domanda che quindi dobbiamo farci è questa: “Come si esce dalla Crisi?” Non tanto dalla crisi congiunturale, che poi non è affatto congiunturale. Ma dalla Crisi Fiscale dello Stato. Ovvero dalla crescente insostenibilità economica che il peso dello Stato inteso come macchina amministrativa, proliferare di enti e funzioni, e soprattutto Pubblico Impiego, spesa pubblica, sanità pubblica, sistema pensionistico pubblico – mi sono dimenticato qualcosa? – grava ormai senza rimedio sulla società nel suo insieme …?

G.B. Per studiare l'Italia bisogna leggere il Decamerone e studiare la Riforma cattolica, solo così si comprendono il Rinascimento e Caravaggio, senza farsi fuorviare dai pregiudizi di certa storiografia protestante. Consiglio un testo fondamentale di Josef Macek, Il Rinascimento Italiano, un affresco senza pari degli animal spirits a cavallo tra XIII e XIV secolo, Firenze in testa.

Di ricette per l'uscita dalla crisi ne leggo una al giorno. La proposta Tagliadebito de L'Italia c'è, con la costituzione di un Fondo patrimoniale immobiliare pubblico, in buona parte recuperato dalla palude degli enti locali, del valore di 700 miliardi, per abbattere i 200 miliardi di debito in circolazione, scambiando 350 miliardi di debito con altrettanti titoli di partecipazione, è da praticare immediatamente.

Sapelli non ha rivali nel cogliere i nessi storici tra i diversi cicli storici ed economici. Ma la domanda, insisto, è questa: dov'è la classe dirigente? Sarebbero i manager trombati con stock option milionarie, i pensatoi che vivono lo spazio di un'elezione, il nuovo che avanza? I nostalgici, nel sindacato e nella confindustria, della concertazione ad ogni costo ed in ogni luogo?  Per loro non avremmo riformato neanche la scala mobile. O certa Finanza, too big to fall, che mentre nega un mutuo per acquistare una casa ad una giovane famiglia in base agli inflessibili rating di Basilea 2 o 3, presta centinaia di milioni di euro senza garanzie ai fiacchi rampolli del capitalismo di relazione?  Non scherziamo, va ricostruita e presto una cultura politica e forme di organizzazione di massa coerenti con la nostra unicità storica.

Rimando all'immagine evangelica della Città sul Monte di Giorgio La Pira, per cogliere quella teologia della storia che accompagnò la stagione della decolonizzazione e dei patti petroliferi dell'Eni con i paesi produttori, della riforma agraria e della scuola media unificata. Le tradizioni politiche socialista e democratico-cristiana hanno ancora molto da dire, non vanno messe in soffitta e House of Cards, la seducente serie tv sulla Washington politica, non è un modello necessariamente da imitare. Non sempre ciò che è reale è razionale. 

 

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L.T. - Piero Ostellino ha scritto sul Corriere della Sera (26/07/14): “Il governo Renzi – l’ircocervo costituito da Berlusconi, padre-padrone di Forza Italia concentrato sulla propria vocazione di imprenditore, e dal furbo e cinico ex democristiano che ha scalato il vertice del PD con il marketing della rottamazione del vecchio e logoro apparato ex PCI e ha raggiunto la Presidenza del Consiglio grazie alla regola, nata con il governo Monti, cha si possa governare una democrazia rappresentativa anche senza aver vinto le elezioni – si sta rivelando la continuazione di vecchie e cattive abitudini…” Mi fermo qui perché poi l’analisi si indurisce assai…

 

G.B. Le letture metapolitiche non mi entusiasmano. La cura che Bruxelles ci ha somministrato dal 2011 ha peggiorato notevolmente il quadro della patologia italiana. Con l'economia che comunque cresceva e senza preoccupazioni per l'inflazione, il rapporto debito-Pil stava nel 2011 al 120%, oggi siamo quasi al 135%, in recessione e con l'inflazione a zero.

La carta Renzi era l'ultima rimasta. È vent'anni che siamo abituati ad eleggere dei premier che non finiscono mai la legislatura, salvo quella 2001-2006, la vera irripetibile occasione persa dal Cavaliere. Non ho mai creduto al potere salvifico del bipolarismo. Berlusconi ha dimostrato intelligenza politica e senso dello Stato nel sostenere il tentativo di Napolitano. Ci ha guadagnato un'assoluzione e in credibilità. Il PD soffre il ritardo della generazione postcomunista che si era illusa di aver surrogato il riformismo e che non aveva colto la posta in gioco cioè la fine di quel sistema nazionalpopolare, con i suoi pregi redistributivi ed i suoi difetti consociativi, non semplicemente del CAF, Craxi-Andreotti-Forlani. Ecco perché dopo aver provato senza convinzione un arruolamento dei superstiti del naufragio socialista si è tornati a riesumare Berlinguer, forse il maggiore responsabile della deriva della sinistra italiana. Ettore Bernabei in un libro che abbiamo letto in quattro gatti, L'Uomo di Fiducia, getta un'ombra inquietante su questo comunista uscito dai lombi della nobiltà sarda. 

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L.T. - "Hegel osserva da qualche parte che tutti i grandi avvenimenti e i grandi personaggi della storia universale si presentano, per così dire due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa". Così inizia il “Diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte” di Karl Marx.

Mi sembra uno stuzzicante incipit per commentare questa “strana” intesa tra Renzi e Berlusconi, il Patto del Nazareno. Qualcuno si è spinto a rievocare il fantasma dell’Unità Nazionale – do you remember? Moro, Andreotti, Berlinguer … tuttavia un certo clima costrittivo si respira … Ci manca un Craxi che voglia rompere i nuovi compromessi storici e inventarsi un’alternativa … Vuoi provare a seguire il filo di questo ragionamento-provocazione?

G.B. Renzi ha inaugurato un nuovo modo di fare, più diretto e dinamico, in cui si sente una cultura nutrita di Agesci ma anche di Don Giussani e perché no qualche eco di Fanfani. Il suo Piano Casa è ancora una pietra miliare. Vuole trasmettere fiducia, si merita credito, non fosse altro perché i suoi nemici, che si abbeverano al Financial Times ed all'Economist lucrando sulla sudditanza a Bruxelles, sono gli stessi che hanno impedito le riforme quando l'Italia cresceva. Sono questi, rovesciando la metafora marxiana, gli "spiriti del passato" che incombono sul Patto del Nazareno. Ha bisogno di attrezzare una squadra all'altezza della sfida, sapendo che non può contare sulle nomenklature esistenti e che i meccanismi del potere sono dispersi in una miriade di piccoli e grandi feudi fuori controllo. Sa pure che, dopo la iniziale sorpresa, le corporazioni si stanno preparando a resistergli. Il tempo si è fatto breve e l'Italia per arrestare il declino ha bisogno di provvedimenti choc purtroppo.

Soffriamo in settori industriali strategici, come la meccanica, le telecomunicazioni cui accennavo prima, l'acciaio. Taranto, Terni e Piombino, portano responsabilità trasversali alla politica, all'impresa, alla magistratura e a fronte dell'Italia maglia nera nella produzione siderurgica mondiale con un -11,7% nel 2013, troviamo nei primi posti Cina, 48,5% del totale, USA, India e Russia. Nel complesso dell'Unione europea che con 168,6 milioni di tonnellate si attesta al secondo posto, spiccano le 42,6 della Germania, noi ne abbiamo prodotte 24,1. Voglio dire che l'acciaio è ancora e lo rimarrà un indicatore di potenza e di sviluppo, che non possiamo trattare con la leggerezza con cui è stata gestita la Lucchini. In partite del genere gli enti locali non possono governare le scelte che richiedono una conoscenza ed una capacità di trattare sui tavoli internazionali.

Eatitaly è una felice idea imprenditoriale ma il futuro dell'agricoltura è legato alla domanda mondiale di cibo destinata a crescere esponenzialmente insieme alla popolazione, rispetto al quale la politica comunitaria delle quote, già discutibile - pensiamo alla chiusura degli zuccherifici - è obsoleta. In trent'anni in Cina i consumi di carne sono passati da 20 a 54 kg pro capite, in Europa ne consumiamo 85 kg e negli Stati Uniti 100 kg, la Cina che nel 2050 verrà superata dall'India con 1 miliardo e mezzo di individui a fronte di una popolazione mondiale di circa 9 miliardi. Per inciso le proiezioni non danno la Russia fra le prime dieci nazioni più popolose.

Sono questi gli scenari su cui si deve tarare la Comunità Europea a partire dal Trattato Transatlantico di Partenariato, ha ragione Paolo De Castro, l'occasione di un salto di qualità per la politica agricola comune e per testare i nuovi poteri attribuiti al Parlamento dal Trattato di Lisbona. Della questione energetica, di cui IF si occupato a iosa, mi preme ribadire il concetto che l'Italia ha già pagato un prezzo esorbitante nel Novecento per la sua cronica mancanza di materie prime, il centenario della Grande Guerra giunge opportunamente a rammentarcelo. Va colmato il gap nelle infrastrutture che ci sta penalizzando - logistica aeroportuale, collegamenti nord-sud, hub, snellimento degli appalti, sicurezza energetica - e fare delle opere pubbliche una leva di sviluppo secondo il classico schema keynesiano. Le reti informatiche sono un asset strategico fondamentale della competizione globale, lo Stato deve mantenere un nocciolo duro di indirizzo nel quadro della politica di intelligence.

C'è una verità che è venuto il momento di proclamare. Questa narrazione sull'occupazione dello Stato da parte dei partiti è vera nella misura in cui l'8 settembre del '43 ne decretò la morte. Il compromesso storico antifascista sotto l'ombrello americano lo ricostruì inevitabilmente attraverso un metodo lottizzatorio e consociativo che assicurò la funzionalità agli obiettivi di uno sviluppo senza eguali che ci ha portato nel ristretto club dei paesi più industrializzati. Qui non c'è mai stata l'ENA, l'École Nationale d'Administration, eppure il livello dei funzionari pubblici nel secondo dopoguerra era buono e sino a Tangentopoli erano i partiti a reggere i fili del meccanismo dell'autorità statale, comprese le regole non scritte del finanziamento illecito.

Una volta scomparsi è emerso tutto quel malcostume burocratico che noi chiamiamo borbonico, ma che è invece un lascito sabaudo. La stessa questione meridionale si inscrive nella gestione dell'unità nazionale, con buona pace di Carlo Levi. Insomma basta avere un po' di domestichezza con gli organismi internazionali per accorgersi che siamo in grado di esprimere una buona cultura pubblica, non ci manca la tradizione, pensiamo allo scuola gentiliana che è ancora la migliore del mondo. Dobbiamo ritrovare la fiducia in noi stessi e recuperare il valore del lavoro e del merito.

 

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L.T. – In questa conversazione finora è mancato un colossale protagonista della scena mondiale, la “nuova” Chiesa di Papa Francesco. Chiudendo un testo che a mio parere resta una pietra miliare dell’analisi della situazione del mondo, Impero di Michael Hardt e Toni Negri (ricordi il Cattivo Maestro? Sarà pure cattivo ma almeno è geniale, molti di questi che girano ora sono solo cattivi…) ho trovato questa profetica conclusione (il libro è del 2001!). Parlando della resistenza contro l’Impero scrivono: “c’è un’antica leggenda che potrebbe illuminare la vita futura della militanza, la leggenda di San Francesco. Per denunciare la povertà della Moltitudine, ne adottò la condizione comune e vi scoprì la potenza ontologica di una nuova società… Nella società postmoderna ci troviamo ancora nella situazione di Francesco, a contrapporre la gioia di essere alla miseria del potere… “. E poco più di un ventennio dopo venne Papa Francesco…

G.B. Buoni e cattivi sono spesso intercambiabili sulla lavagna della Storia. Trovo anch'io delle similitudini da non forzare fra la società italiana del 1200 in tumultuoso sviluppo e l'attuale assetto mondiale. Nel senso che la crescita economica di allora come la corsa tecnologica oggi producono una crescente disuguaglianza insieme a fenomeni di sdradicamento, anche bioetico, da richiedere una nuova evangelizzazione. Pietro Bernardone, il padre di Francesco, un commerciante che fa del lavoro e della famiglia la sua ragione di vita, apparteneva a quella categoria di imprenditori mercanti, ritratti nel libro di Macek che consigliavo, rapaci e determinati come i raider finanziari odierni.

Ma c'è qualcosa di più, la radicalità di Francesco non ha velleità rivoluzionarie come i movimenti pauperistici dell'epoca, obbedisce alla gerarchia ecclesiastica, non ne contesta la struttura, pratica la povertà con i fatti e legittima la Chiesa ad appropriarsi del suo esempio. Nel richiamo attuale alla sua santità che ha fatto del creato, il Cantico delle creature, un luogo teologico, sta tutta la sapienza di un'Istituzione millenaria che difende l'unicità dell'uomo e l'intangibilità della persona dalla manipolazione tecnocratica, che si sia credenti o meno.

L'uscita di Papa Francesco in Corea quando improvvisamente ha smesso di parlare in inglese per parlare in italiano, oltre che riempirci di legittimo orgoglio, è la rivendicazione di una Auctoritas che non si piega al predominio della nuova forma di sovranità scaturita dalla globalizzazione degli scambi economici e culturali che Toni Negri definisce Impero? Impossibile rispondere, ma se ci fa piacere pensarlo...