DEMOCRATURA E RIFORMISMO. SERVE UNA ROTTURA PER RIPARTIRE.
LEONARDO TOZZI
28 mar 2015
DEMOCRATURA E RIFORMISMO. SERVE UNA ROTTURA PER RIPARTIRE.

Firenze, 21/03/2105

Information technology e democrazia

Di questi tempi uno sente la parola DEMOCRAZIA e mette mano alla pistola… Scherzi a parte (fino ad un certo punto), cercavo appunto ispirazione per questo intervento al convegno ideato dal mio caro amico Gianni Bonini, e tra i vari ritagli stampa che conservo e raccolgo – vecchie abitudini che tuttora coltivo – mi sono imbattuto in un sintetico, esplicito e a suo modo lapidario articolo di Edoardo Narduzzi su Il Foglio.

Muovendo dalla denuncia lanciata da opposti versanti da Eugenio Scalfari e Giampaolo Pansa sulla DEMOCRATURA, neologismo in gran voga che indica la tendenza in corso ad andare verso una società meno democratica e più oligarchica, Narduzzi oppone un ragionamento diverso, ma che in realtà conferma, approvandola, questa tendenza.

Quanto sta accadendo – sostiene - è il risultato dell’incapacità della riconosciuta forma di governo tradizionale italiana a reggere la pressione imposta sui sistemi economici nazionali dalle tre dinamo del momento: le riforme imposte dall’euro germanico, la produttività pretesa dall’innovazione tecnologica continua, la competizione dentro la globalizzazione.

Per governare questo nuovo contesto servono, si sostiene, politiche economiche originali e rapide: così funziona negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Anche su House of Cards mi verrebbe da dire scherzando….  Il dibattito sulla DEMOCRATURA è dunque poca cosa: tra un eccesso di confronto democratico e più sviluppo economico, gli elettori - secondo Narduzzi - non avranno dubbi. Vince chi sa realizzare + PIL. Parole testuali.

Le note di Narduzzi hanno il merito di legare la riflessione sulla crisi della democrazia con la questione economica: la domanda è fino a che punto possono capitalismo e democrazia svilupparsi al contempo e parallelamente?

Il leader ungherese Viktor Orban ha recentemente suscitato scandalo sostenendo che la democrazia liberale è diventata – come direbbe The Economist – “unfit” per competere, svilupparsi e decidere nell’economia globale. Una verità amara, ma pienamente nota a chi conduce le danze in America e in Europa. Tanti processi politici che stanno avvenendo sono peraltro spiegabili proprio alla luce di ciò.

Capitalismo e Democrazia non vanno necessariamente insieme e la più clamorosa e inaspettata riprova viene dal caso cinese dove espansione della ricchezza, disuguaglianza sociale e regime autoritario vanno strepitosamente d’accordo.

Sembra dunque che il Capitale necessita di un massimo di libertà individuale (per il mercato) sempre e un minimo di democrazia, sempre più spesso.

La discussione sulla Democrazia ha preso campo nel dibattito pubblico italiano soprattutto a causa dei processi di cambiamento innescati sul nostro assetto istituzionale dal governo Renzi (abolizione/ridimensionamento del Senato, liste elettorali bloccate, esclusione delle preferenze, ecc…) che hanno portato larga parte del mondo politico e culturale italiano, in particolare a sinistra – della destra si sono perse tracce rilevanti negli ultimi tempi … - a invocare toni preoccupati e allarmati sulle sorti della Democrazia e della rappresentanza.

In effetti la sensazione che il sistema politico intenda evolvere verso una prevalenza dei meccanismi decisionali a vantaggio di quelli rappresentativi è ben fondata e va riconosciuto che purtroppo la “Rappresentanza” ha progressivamente dato pessima prova di se, spingendo l’opinione pubblica verso una marcata ostilità nei confronti del ceto politico e accrescendone in modo esponenziale l’astensione e la distanza dai processi politici e democratici.

È tuttavia paradossale, se ci pensate, il corto circuito dell’Antipolitica e dei suoi Girotondi: a forza di martellare con una forza mediatica inarrestabile, confortati da campagne giudiziarie permanenti che hanno asfaltato l’Italia democratica con i suoi Vizi e le sue Virtù, oggi si trovano a vedersi sfuggire di mano proprio l’amata Costituzione, aspirata in un battibaleno come fosse un gelato da passeggio, per dirla con il nostro caro Della Valle.

In realtà questa indubbia mutazione della Democrazia – che, come mi ricorderebbe Bonini che ha fatto il liceo classico, significa Demos più Kratos, ovvero potere del popolo - va ben oltre le pur discutibili riforme del governo Renzi e affonda le sue radici proprio nelle grandi trasformazioni tecnologiche che hanno cambiato radicalmente il mondo contemporaneo.

Oggi la finanza globale separa potere e popolo, proprio perché il suo potere, sollevandosi oltre lo Stato Nazione, si è fatto irraggiungibile.

La questione si è iniziata a porre in termini radicalmente nuovi con lo sviluppo inarrestabile delle nuove tecnologie informatiche ed è un tutt’uno con le trasformazioni radicali che hanno disegnato la nuova società postfordista nella quale siamo immersi.

La tecnologia ha un effetto fortissimo sulla vita e la mentalità del soggetto che la usa per stare nel mondo, lavorare, guadagnarsi da vivere, comunicare.

Di primo acchito l’uomo che lavora al personal computer appare come un uomo più libero dell’operaio massa alla catena di montaggio. Apparentemente lo è. Ma quanto potere di negoziazione sociale ha rispetto al suo antecedente? Come dice il filosofo francese Michel Serres la connettività ha sostituito la collettività”, il lavoratore non vive più tendenzialmente insieme ad altri lavoratori, è connesso con essi, ma non ne conosce né il volto né la voce, solo l’indirizzo mail. Certamente la massa d’informazioni che può procurarsi tramite Internet gli conferisce maggiore conoscenza, ma non potere negoziale. Il solo vantaggio che può vantare nei confronti del lavoratore subordinato, operaio o impiegato, è potere usare quelle informazioni per vivere come lavoratore indipendente, come non salariato.

Il Knowledge Worker, cuore di quella Moltitudine che forma la nuova classe media, è un aggregato sociale che non ha più i valori della vecchia borghesia, non è più capace di sfruttare il lavoro altrui perché si sta a malapena dibattendo nel proprio auto-sfruttamento.

L’estrazione di plusvalore è uscita dalla sfera produttiva per confluire in quella finanziaria, le enormi disuguaglianze di reddito che sempre più si accumulano nelle società capitaliste, l’impoverimento progressivo della middle class, si spiegano infatti analizzando le dinamiche finanziarie e fiscali più che quelle della produzione di massa.

La verità principale che occorre riconoscere è che il mondo come lo abbiamo vissuto negli anni verdi della nostra vita, diciamo almeno fino alla caduta del Muro di Berlino, è finito. Sono finiti gli Stati Nazione e siamo ormai sotto il dominio pieno e incontrollato della finanza globale.

Beninteso, così come ci sono sempre stati uomini che si arricchivano grazie al lavoro e alle imprese, così ci sono stati anche uomini - meno – che facevano soldi coi soldi, prestando a interesse, investendo, lucrando. Vengono in mente i grandi mercanti romani, ma restando in città i mitici Medici non scherzavano.

La clamorosa novità è che oggi il valore globale delle transazioni finanziarie ha finito (?) per superare di ben venti volte la somma del PIL del mondo. Sui debiti pubblici degli Stati Nazione poggia l’astronomico mercato dei derivati, 700mila miliardi di dollari, e i titoli pubblici sono il collaterale che li garantisce, non so se mi spiego…

Non è un caso del resto che oggi un movimento di protesta miri ad occupare Wall Street piuttosto che qualche vecchia fabbrica novecentesca…

Economia finanziaria e tecnologie informatiche si sono potenziate a vicenda a dismisura intrecciando e rendendo interdipendenti le economie. Come abbiamo imparato a nostre spese per esempio nel 2008 quando la crisi innescata dai derivati dei mutui americani ha contagiato il mondo e a noi è costato l’8% del PIL.

Al di sopra dell’economia reale – il mondo della produzione e distribuzione di beni e servizi – si è formato dunque un supermondo finanziario che condiziona, influenza, forse ormai determina il mondo sottostante. Il libero movimento dei capitali non conosce confini e si disloca alla velocità dei click ovunque colga opzioni migliori. Un governo che anche solo manifestasse l’intenzione di inasprire il prelievo fiscale sui redditi finanziari otterrebbe come primo risultato quello di veder fuggire altrove il capitale insieme con il prelievo.

Come puntualmente è accaduto in questi mesi da quando il governo Renzi ha annunciato di portare dal 20 al 26% la tassazione delle rendite finanziarie. Sulla parola - lo ha ricordato recentemente il nostro storico “vice segretario” Claudio Martelli, sempre acuto e brillante - occorre intendersi. La definizione, ha scritto Martelli, evoca l’immagine di “rentiers”, paradisi fiscali, cupidigia. Ma è largamente un inganno. Ciò che viene chiamato “rendite finanziarie” sono in realtà i sudati risparmi di milioni di cittadini investiti in azioni, obbligazioni, buoni del tesoro, fondi pensione, polizze assicurative. Se il governo aumenta le tasse sulle rendite finanziarie in realtà lo fa per colpire i risparmiatori, sapendo che ormai colpire i profitti e redditi nell’attuale lunga crisi economica è sempre più vano.

È la Patrimoniale, che mentre gli economisti e i giornalisti ne discettano amenamente sui giornali, il governo mette astutamente in pratica mascherandola con mosse diversive e demagogiche.

La stessa costruzione europea, di cui in tanti vedono e lamentano l’incompiutezza politica, ha una forte relazione con tutto questo. Vorremo capire se sottrarre sovranità agli Stati, a partire dal diritto basilare di battere moneta, senza parallelamente configurare un percorso politico democratico verso un SuperStato Europeo, sia solo un ritardo storico, un errore politico, oppure al contrario l’esito voluto di una scelta che procede in una direzione esatta.

Probabilmente, se ci sarà una riscossa della Politica, essa dovrà trovare il modo di evolvere in una dimensione a suo modo globale. È qui c’è il doppio carattere della crisi della Democrazia che proprio per questo non può esser letta con ottiche di resistenza e di ritorno all’antico, di difesa conservatrice. Probabilmente questa è una sfida che va accolta, un impegno sul quale dobbiamo sforzarci di stare, per piegarlo agli interessi dei popoli. Forse dobbiamo auspicare una Accellerazione più che un Rallentamento, altro che decrescita felice.

Non è un caso del resto che le nazioni più grandi e potenti sono quelle che reggono ancora il confronto con i mercati.

Direi che la Lotta - tra i diversi interessi che muovono il mondo – Continua, anche se in modi diversi e su piani inediti e inesplorati.

E non è un caso che proprio per questo tornino di moda oggi il marxismo e le sue profezie sul primato del capitalismo finanziario.

Concluderei dicendo che forse solo un nuovo tipo di conflitto può riaprire una reale dialettica sociale e politica, consegnandoci le basi di quello che potrà allora, ma solo allora chiamarsi, Riformismo 2.0.

 

 

 

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