Gianni Bonini
31 mar 2014

Si affollano le iniziative in preparazione dell'Expo 2015 di Milano. L'atmosfera che si respira fra gli addetti ai lavori e gli attori politici, imprenditoriali e manageriali coinvolti è di grande ed ostentato ottimismo, in palese e visibile controtendenza con il pessimismo della ragione dei trend economici e con il vento anti europeista che sta cominciando a tirare al netto di Marine Le Pen. C'è la volontà comprensibile ed in parte anche condivisibile, di celebrare un evento che dovrebbe certificare la salute di un modello di civiltà, la fiducia nelle magnifiche sorti e progressive dell'Italia come hub, la parola è di gran moda, delle virtù produttive, tecnologiche e civili, dell'Occidente.

Soprattutto ora che l'Orso russo torna ad affacciarsi minaccioso ai confini della vecchia Austria-Ungheria come ai bei tempi della guerra fredda. Obama ha poi dato il via alla Friends of the US Pavillon per la partecipazione americana, con un budget previsto di 45 milioni di dollari, nel quadro di quel Transatlantic Trade and Investment Prtnership - TTIP - che John Kerry ha sponsorizzato ulteriormente in questi giorni ma di cui i candidati italiani al Parlamento europeo sembrano totalmente ignari, con la lodevole eccezione di Paolo De Castro, che non ha avuto paura a parlarne in più di un occasione.

Come del resto i nostri media, chiamiamoli così per abitudine, anche qui con l'eccezione di Pagina99, mentre Le Monde ha dedicato alla cosa la grande attenzione che merita ed un graffiante editoriale di Serge Halimi, il suo direttore editoriale, in controtendenza con Hollande. Il TTIP, per dirla con due parole, è un trattato di libero scambio che apre al nostro cibo il mercato americano e alle multinazionali nordamericane definitivamente il Belpaese. È roba molto seria non liquidabile con due battute alla Farinetti, il nuovo intellettuale globale dé sinistra che da qualche tempo, eccitato dalla colazione a sacco di Renzi in via Martelli da Eataly, ci impartisce lezioni magistrali su come si sta sui mercati, la Quinta Internazionale che sostituisce nell'immaginario ormai rincoglionito dell'intellighentia che vorrebbe ambire ad essere radical chic, il grido di dolore di Nanni Moretti a D'Alema, il famoso " ma dì qualcosa di sinistra!" 

Vabbè, lasciamo perdere e riprendiamo il nostro discorso. Il motto dell'Expo, Feeding the planet, Energy for life, vorrebbe mirare, almeno così mi sembra perché i rappresentanti commerciali che lo diffondono sono piuttosto banalotti, a rovesciare un'impostazione tutta tecnologica, quella tradizionale delle esposizioni universali per intenderci, per affermare una visione legata alla qualità della vita, semmai tradotta un po' semplicisticamente nei termini abusati della green economy.

Ora la questione è capire se questa strada è realisticamente praticabile oppure si arresta alla versione politicamente corretta della retorica sul chilometro zero e sulla sostenibilità e la sicurezza alimentare, se veramente riusciamo a modellare l'Expo su una nuova visione del consumo che abbatte la crescente divaricazione tra standard of feeding delle elites e le bad practises che portano all'obesità od alla denutrizione, perché di questo si tratta e il TTIP è uno dei noccioli duri del problema. Insomma non basta sventolare la grande bellezza, non ci sono più Fellini e Mastroianni e De Sica e Zavattini, non ci sono più i grandi protagonisti del neorealismo, gli intellettuali cresciuti all'ombra di Bottai e di Vittorio Mussolini, non c'è più Togliatti nè Craxi, figure storicamente distanti nel tempo, ma al di la delle apparenze, simili nel tentare di attualizzare il ceto intellettuale uscito dall'epoca precedente, nella via italiana al socialismo il primo, nella post modernità il secondo. Purtroppo c'è rimasto Veltroni che perpetua l'inganno del mito della diversità berlingueriana. Leggere Ettore Bernabei a questo proposito.

Se il buon dì si vede dal mattino, è lecito dubitare. Le guglie del nuovo centro direzionale milanese annunciano semplicemente l'omologazione, grazie alle solite archistar, ai templi new age che imperversano sul pianeta, le megalopoli che non prefigurano certo nuovi modelli bioetici ma al contrario scenari da Blade Runner almeno nei paesi che fino a poco fa definivamo Terzo e Quarto Mondo. Lungi da me esaltare un'età dell'oro che non è mai esistita e che aveva i colori della schiavitù coloniale, ma nemmeno Shenzhen, la New York cinese, passata in trenta anni da villaggio di pescatori ai 15 milioni di abitanti di oggi all'insegna del vecchio slogan della NEP leniniana, Arricchitevi, promette un avvenire radioso, fatto di equità sociale e di rispetto della persona.O almeno così sembra a noi probabilmente suggestionati dalle masse di turisti asiatici in giro per Firenze e poi sui pullman per The Mall, l'outlet fashion a due passi da una Rignano ormai agli onori della cronaca.

Ecco dunque la sfida che attende l'Expo al di là del fatto scontato che ci andremo, che sarà un successo anche se non potrà ovviamente raggiungere i numeri di Shangai, 80 milioni di visitatori, anche se sarà sicuramente un volano turistico straordinario per l'Italia ed il suo patrimonio, anche questo irraggiungibile, anche se rappresenterà uno stimolo benefico per l'economia nazionale ed i suoi prodotti tipici, il confronto lo è sempre. La sfida è quella di disegnare una nuova carta della vita sociale, in controtendenza, se vogliamo, con le direttrici che per soddisfare la fame di energia e cibo, i 9 miliardi previsti nel 2045, le due grandi emergenze globali del futuro ma anche dell'oggi, vedono un nuovo colonialismo fatto di accaparramento della terra, di guerre tribali e religiose che coprono enormi interessi economici, di pogrom e di deportazioni di intere popolazioni per liberare allo sfruttamento finanziario le aree ricche di minerali rari e preziosi per le nuove tecnologie del consumo, come si vede in Africa, questo continente tormentato che non riesce a conquistarsi una vera sovranità, anzi dopo l'epoca dei socialismi nazionali sembra affondare in un caos senza precedenti.

La visione di un mondo in cui cibo ed energia siano al servizio di una vita qualitativamente non solo quantitativamente migliore, dunque non solo una vetrina dei nuovi totem bioetici appunto delle elites ma un modello di consumo sostenibile ed al tempo stesso popolare,non banalmente alternativo, capace di rispondere alla domanda dei popoli senza cadere nella trappola neomaltusiana delle ONG onusiane. Insomma più Bergoglio e meno Monsanto e Bill e Melinda Gates - non è facile resistere ad una iniziativa che ha mobilitato 1,7 miliardi di dollari, tanto più se porta le vesti della lotta contro la fame - più cooperazione sociale ed iniziative produttive imperniate su tecnologie governabili a livello locale, cioè più glocalismo e più controllo sulle sementi GE, geneticamente ingegnerizzate, perché non diventino una nuova forma di dipendenza, più attenzione specialmente alle politiche di contraccezione che possono sfociare in politiche di manipolazione abortista all'insaputa naturalmente delle popolazioni "beneficiate".

Al momento questa visione non si vede, ma diamo tempo, non liquidiamo sulla base di una provocazione, la mia, un avvenimento che può effettivamente segnare una svolta. Ci sarà modo per tornarci sopra, serenamente, molto presto.