COLTIVIAMO IL SOGNO DI UNA POLITICA COMUNE
PAOLO DE CASTRO
27 feb 2014
COLTIVIAMO IL SOGNO DI UNA POLITICA COMUNE

Dopo anni di dibattito e confronto tra le istituzioni, l'UE ha definitivamente approvato la riforma della politica agricola comune, o Pac. La Pac ha rappresentato il fattore aggregante di maggior rilievo e la più importante politica economica e di gestione dei suoli attuata negli oltre cinquanta anni di storia dell’Unione europea. Certo, c'è anche molto altro. Abbiamo un mercato interno che può essere migliorato, ma funziona discretamente. C'è un intervento mirato di finanziamento a infrastrutture e progetti di sviluppo nei territori, con le politiche di coesione e i fondi strutturali. L'agricoltura è tuttavia il settore economico in cui l'integrazione europea si è espressa nel modo più compiuto. Accade ovunque nel mondo: la mano del decisore pubblico ha storicamente sostenuto la produzione alimentare. Cina, USA, Giappone, tutti hanno le loro politiche di sostegno per il settore primario, considerato per tradizione strategico. Un attributo che tra l'altro è confermato dai segnali dal futuro. Non è un caso che, mentre ci avviciniamo all'Expo 2015, tutti continuiamo a domandarci come sfameremo gli oltre 9 miliardi di persone che abiteranno il pianeta nel 2050. Non c'è da essere sorpresi, insomma, se l'Europa uscita in macerie dal secondo conflitto mondiale si sia data la priorità di ricostruire il tessuto produttivo agroalimentare per offrire ai suoi cittadini cibo sano a prezzi accessibili. Il problema non è che il progetto europeo si sia compiuto con un'integrazione piena solo nel sostegno all'agricoltura. Il problema vero è che quel percorso non è stato portato avanti con la stessa forza in altri settori, soprattutto in anni recenti. Anche perché lo slancio che ha consentito di pensare e creare la Pac oggi sembra perduto.
Proprio dalla visione comune che ha salutato l'alba della politica agricola si deve ripartire per rispondere alle domande sul futuro dell'Europa. E' difficile, si dirà, perché i tempi sono molto diversi. Ma sono poi così diversi? L'architettura istituzionale dell'UE sta resistendo alla Grande Crisi non perché si sia mostrata capace di superare di slancio le difficoltà, ma perché il sistema per come è ora rende impossibile – se non a costo di grandi sacrifici – smantellare a cuor leggero tutto quello che si è fatto. L'Euro, dato per spacciato da molti solo un anno fa, è ancora la moneta unica, e anche se molti, soprattutto nei prossimi mesi, verranno a raccontarvi che non serve a niente, dal 2014 c'è un paese in più, la Lettonia, che lo ha adottato. L'Europa, la sua moneta unica e la sua politica agricola servono oggi più che mai. Secondo lo studio del think tank Bertelsmann, la Pac ha permesso agli Stati membri di risparmiare ventitré miliardi nel solo 2010.
Ma il progetto dell'UE non sta attraversando la crisi senza danni, non la sta trasformando in opportunità. L'edificio europeo ha retto fino ad oggi perché è robusto, ma scricchiola perché non è abbastanza flessibile. Vale a dire che è difficile che si adatti alla velocità con cui gli equilibri mondiali si stanno modificando. Ogni passo nella direzione in cui tutti i governi europei dicono di voler andare richiede anni. Dalla tassa sulle transazioni finanziarie all'Unione bancaria il Parlamento europeo, di cui faccio parte, ha fatto il suo lavoro a tempo di record. Ma gli interessi particolari degli Stati rallentano il processo. E il mondo va a un'altra velocità. Se l'architettura istituzionale regge, a essere crollata è gran parte della fiducia che le istituzioni UE hanno sempre ispirato in molti cittadini europei, soprattutto i più giovani. Il disastro delle politiche di austerità ha trasformato la fiducia e speranza in paura e senso di precarietà. L'Europa, che per mezzo secolo ha rappresentato la promessa di un futuro di pace e prosperità, nel migliore dei casi viene percepita oggi solo come una realtà senza alcuna progettualità e non quella di tenere i conti a posto. Che fascino può esercitare una cosa del genere su un 20enne? Secondo un'illuminante metafora che il compianto Tommaso Padoa Schioppa proponeva già nel 2009, l'Europa è arrivata alla crisi (e successivamente ha orchestrato le sue risposte sullo stesso approccio) mettendo al primo posto la strategia poco lungimirante del "tenere la casa in ordine". Ognuno a coltivare il suo piccolo orto, a proteggerlo facendo finta che gli spazi comuni, condivisi con gli altri paesi, non esistessero. Questo di fatto ha svuotato il progetto europeo, l'Europa come "casa comune" ha perso di appeal, gli Stati sono tornati protagonisti, quelli virtuosi dal punto di vista dei conti hanno potuto vantare quasi una superiorità morale sugli altri. Non che tenere sotto controllo il debito sia sbagliato, anzi è giusto. Non solo economicamente, ma anche moralmente, perché altrimenti i figli pagherebbero sempre il conto dei padri. Ma per anni il messaggio dei governi nazionali, anche prima della crisi, è stato uno e uno solo: ognuno faccia i compiti a casa e poi ci si potrà aggregare meglio. Ma questa è un'illusione. Che cooperazione è quella in cui si rinuncia a condividere e a scambiare? Quella in cui ci sono voluti mesi per decidere di fare un sacrificio minimo con il salvataggio della Grecia peggiorando di fatto la situazione e innescando una spirale speculativa sui titoli di stato dei cosiddetti Paesi PIGS che solo di recente ha rallentato? Questo non è lo spirito europeo. E' l'Europa contro cui mi sono e ci siamo battuti come S&D dentro le istituzioni europee, grazie al nuovo ruolo assunto dal Parlamento di cui parlerò a breve. Con il "rimbalzo", naturale nei cicli economici, di cui si iniziano a cogliere i primi segnali, e dopo anni di recessione, ci troviamo davanti all'evidenza: Nell'Ue in cui la crisi prima che economica, è politica. E' crisi del progetto europeo.
Non siamo come alla fine della II guerra mondiale, per carità. Ma anche l'Europa che attraversa Grande Crisi deve fare i conti con le macerie, che stavolta sono morali e politiche, oltre che sociali, soprattutto nei paesi messi a dura prova rigidità di certe scelte di politica economica. Molti di questi sono paesi che affacciano sul Mediterraneo. Per questi paesi, ripartire dallo slancio che ha permesso la nascita della PAC non è solo necessario, ma è possibile.
Negli ultimi venti anni, la politica agricola comune è stata caratterizzata da un lungo percorso di riforme, l'ultima delle quali è stata definitivamente approvata a dicembre ed entrerà in vigore in modo completo e compiuto nel 2015. Il dibattito su questa ultima revisione della Pac si è snodato su due temi fondamentali, indissolubilmente legati: competitività e sostenibilità. Competitività, per dare risposte agli agricoltori e ai consumatori europei circa le nuove sfide poste da uno scenario dell'approvvigionamento alimentare globale sensibilmente cambiato in anni recenti. Sostenibilità, perché come tutte le altre attività umane l'agricoltura deve farsi carico non solo nella dimensione economica, ma anche ecologica e sociale delle attività produttive. L'agricoltura del Mediterraneo ha un potenziale enorme da dispiegare in entrambe queste dimensioni. Il maggior numero di prodotti riconosciuti e tutelati dall'UE come prodotti di qualità (DOP e IGP) vengono dai paesi europei che affacciano sul mare "tra le terre". Il che vuol dire un'offerta alimentare molto differenziata, sinonimo di qualità e cultura. Gli agricoltori del Mediterraneo hanno fatto passi da gigante nell'incremento della produttività a fronte della riduzione delle superfici agricole, diventando rappresentanti di un settore moderno e sempre più efficiente in termini di riduzione dell'impatto ambientale. Il Mediterraneo è la culla di una delle diete più famose al mondo, riconosciuta dall'UNESCO come patrimonio immateriale dell'umanità. Ed è anche una frontiera: come luogo di scambio culturale, scientifico e commerciale si presenta come un'opportunità per l'Unione europea.
Se dal punto di vista dei contenuti la riforma della PAC non esprime sostanziale discontinuità rispetto alle revisioni del passato, la nuova politica agricola è nata in un contesto istituzionale ed economico peculiare che ha richiesto di elaborare ex novo una metodologia per arrivare a un compromesso che accontentasse tutti. L'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, dal primo dicembre 2009, ha sancito il potere deliberante del Parlamento alla pari del Consiglio (che rappresenta gli Stati). E' stata una svolta, non solo nel metodo. In primo luogo, ha significato una democratizzazione del processo di decisione. Il Parlamento è l'unica istituzione europea direttamente eletta dai cittadini e solo dal 2009 in poi ha iniziato a contare davvero. Grazie al nuovo ruolo del Parlamento, per la prima volta siamo riusciti a fare una cosa evocata da decenni da capi di Stato e ministri. Siamo riusciti a riequilibrare le politiche agricole, a inserirvi elementi che valorizzano le produzioni e la vitalità del settore agroalimentare del Mediterraneo.
In Parlamento, francesi, portoghesi, spagnoli, italiani e greci - e in commissione agricoltura eravamo un bel numero - sono riusciti a ragionare in termini di interessi dei territori di provenienza, mettendo da parte le guerre ideologiche. Abbiamo ottenuto dei risultati concreti. Questo ci ha consentito, per esempio, di ottenere la tutela rinforzata per le DOP e le IGP nel pacchetto legislativo sulla qualità, di adottare misure concrete per aumentare il potere contrattuale dei consorzi dei prodotti a indicazione di origine, siano essi formaggi come Grana o Parmigiano che prosciutti stagionati, come il Parma o il San Daniele. Cose che hanno significato concreto per le centinaia di imprese che lavorano alla produzione di queste eccellenze.
Si può dire che l'effetto delle spinte ri-nazionalizzatrici, che guadagnano terreno anche per la mancanza di autorevolezza politica della Commissione europea, si è fatto sentire anche sulla riforma della Pac. Starà sempre di più alle amministrazioni nazionali e locali attrezzarsi per utilizzare al meglio, nell'interesse delle diverse agricolture europee, la cassetta degli attrezzi che è diventata la politica agricola comune. Il quadro di sostegno all'agricoltura europea del futuro accentua i caratteri di flessibilità e di modularità. Non si tratta più di una politica centralizzata e monolitica, ma aumentano gli spazi di manovra per un modello di sostegno che sembra volersi adattare alle varie agricolture europee. Questo costituisce anche un giusto richiamo all'assunzione di responsabilità.
Ma attenzione, la politica agricola ha preservato la sua natura "comune", che non è stata intaccata, e ha reso più flessibili gli strumenti operativi. Una politica comune non vuol dire ipso facto rinunciare alla flessibilità e alla modularità delle misure. La politica agricola diventa più flessibile perché all'agricoltura si chiedono sempre più prestazioni – non solo fornire cibo, ma gestire il paesaggio, anche nel senso del contrasto a cambiamenti climatici e dissesto idrogeologico. La PAC incide direttamente sulla vitalità delle aziende e di territori rurali diversissimi, ed è anche politica di gestione dei suoli: è economica, ecologica e sociale. A ulteriore dimostrazione che l'esperienza Barroso vada al più presto archiviata, la novità più dirompente della proposta della Commissione prevedeva di vincolare l'aiuto all'agricoltore a tre pratiche agronomiche "verdi" uguali per tutti i territori europei. Questo avrebbe comportato dei grandi problemi di adattamento per le imprese. Nel tentativo di rendere maggiormente vincolante una delle intuizioni più rivoluzionarie del ciclo di riforme del commissario all'agricoltura Franz Fischler (2000-2003), cioè il trade-off tra aiuto al reddito agli agricoltori e le prestazioni ambientali, in realtà si rischiava che esso perdesse di efficacia. Questo perché le pratiche agronomiche sostenibili sono di solito molto specifiche e legate al contesto territoriale. Difficile che una pratica rechi gli stessi benefici all'ambiente in agricolture diverse. Ecco perché la Pac precedente, pur mantenendo fermo il principio della condizionalità dell'aiuto, collocava le misure "verdi" nel secondo pilastro, quello dello sviluppo rurale co-finanziato da Bruxelles e dalle capitali europee, e non nel primo.
Torniamo al quadro generale. Personalmente, continuo a credere nel progetto europeo. Per due motivi fondamentali. Non vedo alternative per uscire dal cul de sac in cui siamo. Una maggiore integrazione europea è il primo, forse l'unico, antidoto alla crisi. Il secondo motivo è il ruolo del Parlamento europeo. Sono anni che si parla di Unione Europea solo come soggetto impositore. Siamo stati talmente assorbiti da questi discorsi che nessuno si è accorto che grazie ai nuovi poteri dati dal Trattato di Lisbona c'è un'istituzione che offre grandi opportunità di partecipazione diretta alla vita politica europea, cioè il Parlamento. Ma siamo solo all'inizio. Ai vecchi meccanismi decisionali devono essere sostituti di nuovi e ci vuole del tempo perché il Parlamento vuole contare ancora di più e, come naturale, incontra parecchie resistenze. Le basi giuridiche per farla finita con i discorsi sulla comunità europea come mero organismo tecnocratico sono già state gettate. Dobbiamo esserne consapevoli e usare al meglio i "nostri" parlamentari.